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Uscire dalla comfort zone: un’esperienza stimolante

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Ciao, è da tantissimo tempo che non riesco ad essere presente qui sul blog e cercherò di recuperare perché scrivere mi manca moltissimo.

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Oggi riesco a sedermi un secondo per raccontarti dell’esperienza che ho vissuto domenica 10 giugno perché penso possa esserti utile in qualche modo.

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Sono stata invitata a partecipare al Nimbus festival, una manifestazione bellissima organizzata a Roma nei giardini del Monk da Alinea e Bacteria.

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Si trattava della mia seconda uscita pubblica e posso dire di essere molto contenta di aver accettato l’invito. La mostra mercato dell’immaginario ha raccolto intorno a sé artigiani, artisti e illustratori di grande talento in un’atmosfera rilassata e familiare.

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Ecco, diciamo che il contatto col pubblico non è proprio il mio forte. Sono una persona molto timida e riservata e diciamo pure, schiva. Ma uscire dalla mia comfort zone ogni tanto è stimolante perché mi dà la possibilità di mettermi alla prova e spostare i miei orizzonti sempre un po’ più in là.

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Sentirsi parte di un progetto. Essere apprezzati per quel che si fa. Spiegare con amore alle persone che te lo chiedono con interesse quello che fai ogni giorno nel tuo laboratorio. Osservare la luce negli occhi degli altri quando guardano i tuoi lavori. Scambiare punti di vista con gli altri artigiani come te. Darsi consigli e ricevere incoraggiamenti. Tutto ciò non può avvenire quando sei sola nella tua bottega.

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Nimbus_1

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Certo esiste Internet, e un like su Instagram o su Facebook a volte assomiglia a una pacca sulla spalla ma in realtà non lo è.

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Quindi se posso azzardarmi a darti un consiglio, quando ti capita, esci anche tu dalla tua comfort zone. Buttati nella mischia e lancia il tuo cuore oltre quelli che ti sembrano ostacoli ormai consolidati. Perché ne vale la pena.

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In questo articolo di Valeria Arnaldi per “Il Messaggero” si parla anche del Nimbus festival.

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E quando dopo una giornata come quella trascorsa al Nimbus, per la quale ringrazio tutti quelli che l’hanno organizzata e hanno contribuito a realizzarla, torni a casa con un sorriso in più, ne trarrai beneficio nella tua quotidianità ma ne trarranno beneficio anche e soprattutto quelli che ti stanno intorno.

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E con questo è tutto. Alla prossima! 

 

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Ti racconto la mia prima esperienza dal vivo: Wave Market Fair 2018

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In queste ultime settimane non mi sono fatta sentire spesso. Lo so. Ma c’era un motivo. Sono stata impegnatissima a preparare la mia prima uscita dal vivo in assoluto.

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Sono stata invitata a partecipare al Wave Market Fair, un mercato che si tiene nell’ambito dell’Outdoor Festival a Roma, negli spazi della Pelanda, all’antico Mattatoio di Testaccio.

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Per me che produco tutto ciò che faccio interamente a mano, si è trattato di un grosso impegno in termini di tempi. Per riempire il mio stand ho lavorato più o meno un mese e non sono riuscita a portare con me tutto ciò che avrei voluto.

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Nonostante questo, l’esperienza è stata bellissima e mi ha fatto riflettere su molte cose.

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In primis, il contatto diretto con i clienti. Era una cosa che avevo già vissuto in passato ma non mi ero mai trovata a vendere prodotti fatti da me o a raccontare il mio brand, le mie idee e le mie ispirazioni. E posso dire che fa tutta la differenza. Incontrare le persone, osservare la loro espressione mentre descrivi con passione quello che fai è un’esperienza unica.

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In secondo luogo, ritrovarsi insieme ad altri creativi. Il confronto è sempre un elemento stimolante. Scambiarsi saperi, tecniche, ispirazioni dal vivo, non con un semplice like su Istagram, è completamente diverso e assai più appagante.

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Terzo, poter vivere uno spazio dove si produce cultura dall’interno. Questo mi ha resa orgogliosa e ha rabboccato le mie scorte di creatività. La Pelanda è uno spazio bellissimo e la rassegna dell’Outdoor, con il Wave Market Fair, è stata curata con passione. Far parte di tutto questo è stato molto stimolante.

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P.S. Sì, nella foto ho le occhiaie e non ho voluto toglierle con Photoshop… ero felice ma davvero distrutta 🙂

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Un ultima riflessione però la vorrei fare e la rivolgo a tutte le mamme crafter come me. Per poter partecipare ad eventi live di questo genere, c’è bisogno di una rete di supporto, c’è poco da fare. Persone che ti aiutino nella fase produttiva, organizzativa e preparatoria dividendo con te il carico di cura dei tuoi figli. Persone che logisticamente ti accompagnino, ti diano il cambio e si occupino dei bambini mentre tu partecipi all’evento. Ecco, non sottovalutate l’importanza di questo aspetto. Chiedete aiuto a chi vi sta vicino se volete godere a pieno della partecipazione agli eventi live che tanto bene faranno a voi e al vostro brand.

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A chi mi ha supportato in questa splendida avventura quindi dico grazie. Al mio compagno, a mia sorella e ai miei genitori senza i quali non avrei potuto essere al Wave Market Fair del 10 maggio scorso. E a mia figlia che ha avuto tantissima pazienza.

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Noi ci risentiamo presto al prossimo articolo!

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Ritrovare la lentezza in cinque semplici mosse

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Aprile è arrivato e ci parla di lentezza.

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Da sempre sono un’ambasciatrice della lentezza anche se ciò non significa che io riesca sempre a rallentare i miei ritmi. Anzi.

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Spesso e volentieri riempio le mie giornate all’inverosimile e mi ritrovo a forzare i ritmi lavorando anche dieci ore di seguito per poi mangiare al volo schifezze precotte e infilare nei buchi tutto ciò che resta, dalla cura della casa al tempo dedicato a mia figlia, fino a stramazzare nel letto distrutta e con un gran mal di testa.

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Avete anche voi l’impressione di correre continuamente per cercare di far stare tutto quello che avete in programma in una giornata sola? Ecco. Siamo degli equilibristi alla ricerca dell’incastro perfetto e questo ci fa scordare che ogni cosa ha bisogno del suo tempo.

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Io, nel mio piccolo, credo che la lentezza non sia un disvalore e che vada preservata. Mi sono imposta di riservarle degli spazi all’interno della mia giornata in modo tale da fermarmi e prendere fiato, riconnettermi con me stessa, non perdere di vista la reale qualità del tempo e allontanare il senso di disagio che la fretta mi provoca inevitabilmente.

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Ma come fare? Ecco le cinque mosse che solitamente metto in atto durante la settimana per tirare il freno a mano e accogliere la lentezza.

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A-piedi

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1. Se puoi andarci a piedi, vacci a piedi.

Non so voi, ma nella città in cui vivo io a piedi non puoi fare praticamente niente. Questo ti porta inevitabilmente ad abituarti alla condizione di prendere la macchina anche per comprare un cartone di latte. La mia strategia di lentezza numero 1 quindi consiste nell’abbandonare la categoria mentale della “donna automobile” per riprendermi l’uso delle mie gambe. Se devo fare una qualunque commissione che è a portata di piedi, allora ci vado, a piedi. E quel tempo recuperato al mio corpo mi ritempra anche lo spirito perché significa accogliere gli stimoli che vengono dall’esterno, osservare il passare delle stagioni, percepire la presenza degli altri esseri umani, accorgersi di particolari che nemmeno vedresti altrimenti.

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2. Cucina qualcosa che ha bisogno di lievitare.

La tentazione di mangiare noodles precotti, panini che si scaldano al microonde et similia è davvero forte e io ci casco spessissimo. Per mia figlia cucino con grande attenzione, con prodotti a km zero di cui conosco la provenienza, dieta mediterranea variata, incastri con i menu scolastici che manco Jamie Oliver. Ma se devo preparare per me non ci metto più di due minuti due. Quindi mi sono presa l’impegno di preparare qualcosa che lievita. Qualcosa che ha bisogno di tempo per crescere almeno una volta a settimana. Questo mi aiuta a recuperare l’idea che la lentezza è necessaria ed è il valore aggiunto che rende gustose le cose della vita.

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3. Prenditi del tempo per fare qualcosa di manuale.

Ecco, su questo punto non posso proprio eccepire. Il mio lavoro è un lavoro manuale. Per produrre artigianato handmade devi fare le cose con le mani e ci vuole il tempo che ci vuole. Quello che vorrei aggiungere però, e che credo possa essere utile a tutti, indipendentemente dal lavoro che si svolge, è che le ore passate a fare qualcosa di manuale, che sia riempire un colouring book, o cucire un vestitino per le bambole, che sia scolpire il legno o dedicarsi alla pittura, ci ridanno respiro. La lentezza dei gesti ma soprattutto il focusing, l’atto di restare concentrati su qualcosa che si fa con le mani, ci svuota di tutte le tensioni accumulate e ci rimette in contatto con noi stessi.

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4. Semina e prenditi cura di una pianta.

Trucco numero 4. Fare giardinaggio. Anche se siete dei pollici neri. Maneggiare la terra, i vasi. Seminare. Aspettare che le piante crescano e poi prendersene cura. Questo sì che è un esercizio di lentezza. Inoltre la natura ha i suoi tempi e c’è poco da fare. Non avrete mai sul vostro balcone delle buganvillee d’inverno o dei ciclamini d’estate. Il tempo delle stagioni vi obbliga ad essere lenti e pazienti e vi riconnette con voi stessi.

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5. Scrivi 10 minuti al giorno e fallo con la penna.

Questo consiglio non è che l’abbia inventato io eh. Però trovo che sia vero come poche cose al mondo. Pensateci. Quanto incidono dieci minuti nell’economia della vostra giornata? Sono dieci minuti, suvvia. Basterà puntare la sveglia 10 minuti prima ed ecco che avrete ricavato un tempo fondamentale per recuperare il vostro contatto con la lentezza. Vi ricordate quand’è stata l’ultima volta che avete usato la penna? Vi ricordate la forma della vostra grafia?  Io certe volte la perdo completamente di vista. Ma questa pratica, quella di scrivere a ruota libera con la penna la qualunque vi passi nella testa per 10 minuti al giorno, è oltremodo salutare e vi preserva dal perdere il contatto con voi stessi.

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Spero che il mio post vi sia stato utile e se avete commenti o suggerimenti su come recuperare la lentezza nella vita di tutti i giorni, scrivetemi. Alla prossima!

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Stimolare la creatività dei bambini in 5 facili mosse

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Ciao crafters!

Oggi vorrei parlarvi di un argomento che mi sta molto a cuore e cioè come fare a trasmettere il proprio amore per la creatività ai figli o i generale ai bambini.

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È molto difficile quando il tuo mestiere non è in qualche modo “codificato”, trasmetterlo a un figlio piccolo che ti chiede: “Tu che lavoro fai mamma?”. Io rispondo: “L’artigiana” ma il più delle volte la mia bambina di quasi cinque anni mi guarda con un punto interrogativo e non so come andare avanti.

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Ho stabilito quindi con me stessa che una delle cose a cui tengo di più è condividere con la mia bambina la creatività come valore e trascorrere dei tempo in modo giusto con lei per potergliela trasmettere. Ma come fare? Se sei una mamma crafter o artigiana anche tu, o se sei una zia crafter o artigiana o se semplicemente hai voglia di trasmettere il tuo amore per la creatività ai figli dei vicini di casa, ecco 5 consigli facili e veloci per poterlo fare in armonia.

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1. Fai entrare i bambini nel tuo spazio di lavoro ma con rispetto.

È vero che i bambini sanno essere dei tremendi distruttori ma se gli nascondi il tuo spazio di lavoro non avranno mai la precisa idea di ciò che fai. Spiega loro tutto ciò che ami del tuo lavoro con semplicità, mostragli strumenti e fasi di lavorazione e alla fine trasmettigli il concetto che tutto ciò che si trova dentro il tuo spazio di lavoro è sacro, non è un gioco ma va condiviso con rispetto. Non dico che sia immediato e che non richieda fatica, ma alla fine capiranno.

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2. Lascia che i bambini accedano a quanti più strumenti d’arte possibile.

È vero, in fondo un pastello è solo un pastello, ma se i bambini si abituano da subito ad avere intorno pastelli a cera, a olio, pennarelli, colla, forbici, acquarelli, carta colorata, stoffa, bottoni e tutto ciò che ti viene in mente, la loro curiosità per i materiali, le diverse consistenze e gli accostamenti di colori, troverà pane per i suoi denti e ne verrà stimolata.

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Pastelli

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3. Insegna ai bambini che sporcarsi mentre si crea è del tutto normale.

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Non so i vostri bambini, ma mia figlia odia sporcarsi le mani. In qualunque luogo, che sia il ristorante o il parco. Quello che sa però è che quando si crea, si disegna, si fanno collage, si dipinge, sporcarsi le mani è normale anzi fa parte del processo creativo!

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4. Non entrare mai in competizione con i bambini mentre stanno creando e ascoltali.

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Disegnare insieme o creare un collage o qualunque altra forma di creatività è meraviglioso ma si rischia di entrare in competizione. Il bambino potrebbe essere intimorito dalla bravura di una mamma che fa la pittrice o di una zia che intaglia il legno e non sentirsi adeguato. Non metterti mai in competizione con un bambino. Se disegnate insieme cerca di metterti nei suoi panni e soprattutto ascoltalo mentre crea, fatti raccontare le sue idee e i suoi progetti, anche se sulla carta ci sono solo quattro linee indistinte. Per lui quelle quattro linee rappresentano un mondo.

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5. Stimola l’universo visivo dei bambini mettendoli costantemente di fronte alle opere d’arte che più ti ispirano.

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Spesso si pensa che i bambini siano troppo piccoli per andare al museo o per guardare libri d’arte. È vero, viviamo in Italia e non a Londra, dove nella Tate Modern c’è un’intera area dedicata ai bambini. Questo da noi succede in poche strutture museali e si tratta prevalentemente di strutture a tema “scientifico” ( si pensi ad esempio al Muse a Trento o alla Città della scienza a Napoli) o e non c’è una vera e propria cultura della trasmissione dell’arte ai bambini. Ma se sei una creativa non precludere ai bambini l’esperienza di vedere opere d’arte. Che siano murales, mostre nei musei o semplicemente riviste o libri, è fondamentale che i bambini fin da piccoli possano esserne circondati. Più fertile è il terreno che gli sta intorno più la loro creatività ne verrà fecondata.

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Spero che i miei piccoli 5 consigli per stimolare la creatività dei bambini vi siano stati utili. Aspetto le vostre domande o commenti e nel frattempo noi ci ritroviamo qui in bottega, per il prossimo articolo del blog!

 

 

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Perché ho scelto di scrivere un libro sulla gravidanza

In-attesa copertina

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Buon lunedì dalla bottega! Il post di oggi sarà un po’ diverso rispetto al solito ma rientra perfettamente nell’ottica con la quale ho scelto di affrontare il mese di marzo.

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Chi si è iscritto alla newsletter lo sa già, per me marzo è il mese della consapevolezza femminile perché è legato alle celebrazioni della festa della donna.

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Quindi non vi parlerò di fai da te, o timbri in gomma, o inchiostri o carte, ma di gravidanza e del perché io abbia scelto di scriverci su un libro.

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Sono stata a lungo indecisa su se dire la mia su questa esperienza che mi ha cambiato la vita. Ogni riflessione, ogni parola mi sembrava potesse scadere immediatamente nel banale, nel già sentito o detto, nel luogo comune che in Occidente pesa come un macigno sulla maternità e suoi annessi.

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 Poi alla fine ho scelto di parlarne in un libro che si intitola In attesa e che uscirà a breve per la collana “Strongher” dell’editore romano Iacobelli, diretta dalla vulcanica Valeria Arnaldi.

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Ho scelto di scrivere della gravidanza per due motivi, il primo è personale, il secondo è pubblico.

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Ho una figlia. L’ho partorita a 36 anni. Se mai lei decidesse di avere un figlio (se non volesse averne sarò una madre fiera di lei allo stesso modo) alla mia stessa età, io avrò ben 72 anni. Spero di arrivare a quella fase della mia vita nel pieno possesso delle mie facoltà mentali ma, non me ne vorrete, probabilmente della mia gravidanza avrò un ricordo vago o piuttosto sbiadito. Questo libro allora l’ho scritto per lei, per mia figlia e per il suo corpo di donna che in una società patriarcale come la nostra non sarà mai un corpo connotato solo dalla neutralità del dato puramente biologico ma sarà caricato di tutte le sovrastrutture religiose, culturali, sociali, folcloristiche e di potere che appartengono a chi può dare o non dare la vita. Questo libro l’ho scritto perché lei potesse, un giorno, sapere esattamente quello che mi è accaduto quando sono rimasta incinta senza la mediazione e l’edulcorazione e l’istinto di protezione che magari mi porterebbero, a 72 anni, a raccontarle le cose diversamente da come sono andate. E questo è il primo motivo.

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Il secondo motivo per cui ho scelto di scrivere un libro sulla gravidanza è invece, per così dire, “pubblico” ed è legato al valore intrinseco che per me rappresenta l’essere scrittrice. Il potere della parola scritta è enorme. Ed è un potere di condivisione e di rafforzamento dei saperi e delle esperienze altrui.

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In quest’ottica ho pensato che la mia personalissima esperienza, il mio personalissimo punto di vista sulla questione, potesse essere d’aiuto a qualcun altro. Per questo mi sono decisa a uscire allo scoperto e affidare alla carta stampata le mie parole, le mie riflessioni e il mio vissuto. Un atto che per me non è stato facile e che spero possa esservi in qualche modo utile.

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La collana nella quale il mio libro è stato pubblicato si chiama “Strongher” e, per quel che mi riguarda, essere più “forti” vuol dire soprattutto essere più consapevoli. Siccome la maternità è un’esperienza che ti cambia completamente la vita (in tutti i sensi) e che, prima di viverla, non la puoi nemmeno lontanamente immaginare, se ci arrivi con una maggiore consapevolezza, forse, riesci ad affrontarla con più forza senza lasciartene soverchiare.

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Quindi la mia teoria è che il periodo della gravidanza dovrebbe essere usato per fare questo: rafforzare la propria consapevolezza andando oltre lo stereotipo culturale che le puerpere vanno in una qualche maniera “protette” omettendo una serie di problematiche che poi crolleranno loro addosso una volta diventate “mamme”. 

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Se vi interessa saperne di più leggete In attesa.

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Leggetelo se siete madri perché riflettere sulla maternità è una cosa che è utile fare e rifare in continuazione visto che la relazione madre-figlio è in continuo mutamento. Leggetelo se siete incinte perché magari ci troverete qualche spunto interessante. E infine leggetelo se siete donne che non hanno figli perché siete comunque figlie di una madre e magari vi aiuterà a capire meglio quello che lei ha vissuto sul suo corpo.

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Noi ci diamo appuntamento per il prossimo articolo di questo blog e se avete commenti o domande o riflessioni da condividere, vi aspetto!

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Settembre: Etsy, Instagram e tante novità

Ed eccoci arrivate a Settembre, mese di bilanci e programmazioni. Per me ci sono tante novità in vista, novità che voglio condividere con voi perché rappresenteranno una sfida con la mia creatività e con la mia perseveranza.

Come molte di voi sapranno la piattaforma italiana A Little Market su cui avevo scelto di aprire il mio shop è stata acquisita dalla più grande e internazionale Etsy. Per me organizzare il negozio e iniziare a presentare le mie creazioni artigianali è stata una sfida e mi sono ritrovata, solo dopo pochi mesi, a ricominciare tutto da capo in una piattaforma diversa, nella quale c’è molta più concorrenza. Mi spaventava molto all’inizio, ma mi sono ripromessa di rimboccarmi le maniche e andare incontro a questo cambiamento con spirito positivo e accoglierlo come un’opportunità. Così mi sto dando da fare per curare il mio nuovo negozio e progettare una nuova collezione di prodotti per Etsy (che includerà anche pdf e printables) pensata anche per un target internazionale.

L’altro fronte su cui sto lavorando con perseveranza è il mio profilo Instagram, che è senz’altro il mio social d’elezione. Scegliere con cura gli aspetti cromatici e compositivi di ogni post, lavorare con calma e dedizione piuttosto che d’istinto, guardarmi intorno per cogliere i particolari che mi colpiscono, mi sta aiutando a capire meglio me stessa e ciò che desidero comunicare agli altri. E questo mi fa sentire più completa, soddisfatta, anche se la meta è ancora lontana e il futuro tutto da costruire.

Anche il blog si arricchirà a breve di nuove sezioni. Continuerò a postare approfondimenti riguardanti i timbri in gomma fai da te e le tecniche di stampa a mano ma, visto che in questi mesi ho sviluppato una passione smodata per l’handlettering e le penne da calligrafia, vorrei condividere con voi le mie esperienze in materia. Ogni mese ci sarà la recensione di un libro che mi ha particolarmente ispirata e continuerò a riflettere sulla difficile arte di conciliare maternità e lavoro.

Insomma si tratta di una montagna di cose nuove tutte governate dalla mia parola chiave del 2017 che, come dicevo, è perseveranza.

E voi? Quali sono i vostri programmi per l’autunno?

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Recensione: Una mamma green

Questa è la prima recensione che pubblico sul mio sito. Per me è un momento importante perché in questo modo riprendo a fare quello che è stato in un certo senso il mio lavoro per tanti anni ossia consigliare la lettura di un libro agli altri.

Come scegliere da dove partire? Diciamo pure che non ho avuto dubbi.

Appena ho saputo che era stato pubblicato ho pensato che il libro di Silvana Santo, Una mamma green (Giunti, 2017), doveva essere mio.

Il blog di questa giornalista partenopea è per me la quintessenza di quello che un blog dovrebbe essere: parla dritto al cuore, è scritto in un italiano favoloso e genera riflessioni. Io che solitamente faccio una fatica enorme a “leggere on line”, quando c’è un nuovo post della mammagreen mollo tutto e, ovunque mi trovi, mi fermo e lo divoro perché la totalità delle volte dentro ci trovo una parte di me stessa. È uno specchio dentro cui vedo il mio modo di intendere la maternità e mille altre questioni.

E lo stesso discorso vale anche per il suo libro.

Sebbene io non sia un’ecologista integralista (cerco di fare del mio meglio ma a volte ammetto di cedere alle lusinghe del capitalismo ecomostruoso), Una mamma green mi ha aperto nuovi orizzonti.

[vc_separator type=”transparent” position=”left” color=”” border_style=”dashed” width=”” thickness=”” up=”” down=””]Peccato non averlo letto mentre ero in gravidanza… Mi sarei risparmiata anni di coppette assorbilatte usa e getta e pannolini ad alto impatto ambientale. Avrei avuto qualche strumento in più per leggere consapevolmente le etichette di creme lenitive, oli e unguenti. Avrei imparato a fare un decluttering consapevole.

[vc_separator type=”transparent” position=”left” color=”” border_style=”dashed” width=”” thickness=”” up=”” down=””]Ma soprattutto mi sarei sentita confortata all’idea che al mondo esiste qualcun’altra oltre me che ha il coraggio di allattare al seno il proprio bambino fino ai due anni e portarlo addosso in fascia nonostante la mentalità comune secondo cui quando lo fai stai perversamente “viziando” il tuo piccino.

[vc_separator type=”transparent” position=”left” color=”” border_style=”dashed” width=”” thickness=”” up=”” down=””]Qualcun’altra che non ha paura di ammettere che dormire insieme ai propri figli piccoli in uno stesso grande letto (il cosiddetto cobedding) non è una pratica triviale ma una cosa meravigliosa.

[vc_separator type=”transparent” position=”left” color=”” border_style=”dashed” width=”” thickness=”” up=”” down=””]Qualcun’altra che non usa gli omogeneizzati ma nutre i propri bambini in modo consapevole e secondo la stagionalità di prodotti preferibilmente a chilometro zero.

[vc_separator type=”transparent” position=”left” color=”” border_style=”dashed” width=”” thickness=”” up=”” down=””]Qualcun’altra che ammette che l’amore materno non è un sentimento dato, immediato, compatto e cristallino ma si costruisce nel tempo e soprattutto nella relazione con i propri figli, che sono altro da noi, delle “piccole persone, dotate di temperamento, preferenze, attitudini precise e peculiari, di una consapevolezza disarmante”.

[vc_separator type=”transparent” position=”left” color=”” border_style=”dashed” width=”” thickness=”” up=”” down=””]“Diventare genitore ti cambia per sempre, non solo perché ti conferisce una responsabilità definitiva e grandissima, ma perché ti mette in relazione con degli esseri umani che prima non conoscevi, che addirittura non esistevano. […] Diventare genitore è un viaggio senza ritorno nella verità”.

[vc_separator type=”transparent” position=”left” color=”” border_style=”dashed” width=”” thickness=”” up=”” down=””]E quindi: leggete Una mamma green, seguite il blog di Silvana Santo. Ne vale davvero la pena. Le sue parole sono un toccasana per l’anima![vc_separator type=”transparent” position=”left” color=”” border_style=”dashed” width=”” thickness=”” up=”” down=””]

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Un penny tutto per sé

Come diceva Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé:

 

«Making a fortune and bearing thirteen children – no human being could stand it. Consider the facts, we said. First there are nine months before the baby is born. Then the baby is born. Then there are three or four months spent in feeding the baby. After the baby is fed there are certainly five years spent in playing with the baby. […] If Mrs Seton, I said, had been making money, what sort of memories would you have had of games and quarrels? […] But it is useless to ask these questions, because you would never have come into existence at all. Moreover, it is equally useless to ask what might have happened if Mrs Seton and her mother and her mother before her had amassed great wealth and laid it under the foundations of college and library, because, in the first place, to earn money was impossible for them, and in the second, had it been possible, the law denied them the right to possess what money they earned. It is only for the last forty-eight years that Mrs Seton has had a penny of her own»1.

Ecco, quando ho letto questo saggio per la prima volta ero all’Università e da scrittrice in erba mi concentravo sulla parte romantico-femminista della storia: una donna, per scrivere capolavori, ha bisogno di una stanza tutta per sé.

 Adesso, vent’anni dopo l’Università e quattro anni dopo aver avuto una figlia, ho realizzato (nonostante esistessero già svariate querelle femministe sull’argomento) che in Una stanza tutta per sé Virginia Woolf parla anche di maternità. E in sostanza questa donna, che ha vissuto agli inizi del Novecento, non fa che dire una cosa verissima: «Far fortuna e dare alla luce tredici figli – nessun essere umano ce la può fare». Al di là del fatto che nella società occidentale, nella classe medio-borghese, al momento è abbastanza raro che una donna faccia tredici figli, trovo che in questa frase siano comunque racchiusi i due scabrosi elementi cardine della vicenda: “fare soldi” e  “fare figli”. Due cose di cui un essere umano può o non può occuparsi contemporaneamente? Ed ecco che nella mia testa le parole “a room of one’s own” si trasformano a un tratto in “a penny of her own”.

 Una volta parlavo con un amico, forse dieci se non dodici anni fa, e devo avergli detto qualcosa come: «Se una donna non è economicamente autosufficiente come fa a scrivere? Bisognerebbe avere dei soldi per non dover lavorare e dedicarsi anima e corpo alla scrittura». Mi ricordo che la cosa lo colpì e mi rispose qualcosa come: «Ma stai davvero parlando di soldi?». All’epoca lavoravo in una libreria di catena per potermi mantenere e mi sembrava di dedicare alla scrittura davvero troppo poco tempo.

 A pensarci adesso mi fanno riflettere due cose.

 La prima è quanto sia cambiata, dopo aver avuto una bimba, l’idea di “dedicare troppo poco tempo a qualcosa” al di fuori di lei. «Consider the facts», diceva la Woolf, «Consideriamo i fatti» (e si badi bene, qui si parla di «fatti», non di «opinioni»):

«First there are nine months before the baby is born. Then the baby is born. Then there are three or four months spent in feeding the baby. After the baby is fed there are certainly five years spent in playing with the baby».

Insomma secondo la Woolf per poter arrivare ad avere del tempo per sé (e quindi per poter tornare a lavorare e conseguentemente guadagnare diremo noi), una mamma deve aspettare almeno cinque anni a bambino, poiché in quei cinque anni il suo ruolo è essenziale, deve stare insieme a lui, deve nutrirlo fisicamente («to feed the baby») e poi spiritualmente («play with the baby»). E qui non ci sono santi. Non ci sono sostituti. Queste cose, secondo Virginia Woolf, le deve fare la mamma, punto e basta.

La seconda è che la questione del rapporto tra soldi e donne è e rimane cruciale. Non l’abbiamo risolta, manco per niente. Nel 1928 Virginia Woolf diceva:

«It is only for the last forty-eight years that Mrs Seton has had a penny of her own».

Adesso, il fatto che una donna medio-borghese occidentale lavori e abbia dei soldi propri ci sembra una cosa abbastanza scontata dal punto di vista sociale (disoccupazione a parte), voglio dire non sembra una cosa scandalosa e fuori luogo o peggio «denied by law». Ma io credo che sia ancora maledettamente faticosa se quella donna ha dei figli.

 Che ne pensate? Non vedo l’ora di confrontarmi con voi su questo argomento.


 1) V. Woolf, A room of one’s own, Penguin, Londra, 2004, pp. 25-26.

 

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Conciliare maternità e arte secondo Natalia Ginzburg

Conciliare maternità e arte

secondo Natalia Ginzburg.

 

Se la maternità sconvolga a tal punto la vita di una donna da non permetterle più di dedicarsi alla sua arte come avrebbe fatto se non avesse avuto figli, è un argomento a lungo dibattuto almeno a partire dall’inizio del Novecento. Il tema è caldo soprattutto per chi considera l’arte come un lavoro, qualcosa da perseguire con rigore e metodo oltre che lasciandosi trasportare dalla propria ispirazione.


La stessa domanda me la sono posta anch’io infinite volte
mentre la maternità sconvolgeva completamente la percezione che avevo di me, delle mie parole, del mio corpo e del mio tempo. E la risposta non l’ho ancora trovata perché credo che non esista. Quello che esiste sono le esperienze delle persone. Il modo in cui questo momento così significativo e denso della vita viene affrontato, superato, gestito, elaborato dalla singola donna, artista o meno che sia.

Non so se capita anche a voi, ma quando ho un dubbio, oltre che condividerlo con le persone che mi circondano, cerco una risposta nei miei libri. Sono convinta che i libri ci parlino, che dialoghino con noi e che, a seconda della fase della vita in cui li leggiamo o rileggiamo, ci diano delle risposte.

Quando leggevo i suoi romanzi all’Università per scrivere la mia tesi di laurea, quello che mi colpiva di Natalia Ginzburg era il rigore. Questa donna, la cui vita è stata attraversata in maniera durissima dalle vicende della Seconda Guerra Mondiale, dichiarava essenzialmente che la scrittura è un mestiere:

«Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere […] adopero degli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani»1.

E più avanti:

«Questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone, capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lacrime e stringere i denti e asciugare il sangue delle nostre ferite e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede»2.

 

Quindi la scrittura è un mestiere, una cosa seria, una cosa che non si può fare “con una mano sola”. Ma come conciliare questo “mestiere” con la maternità?

«E poi mi sono nati dei figli e io sul principio quando erano molto piccoli non riuscivo a capire come si facesse a scrivere avendo dei figli […] m’ero messa a disprezzare il mio mestiere»3.

Ecco, non so voi, ma io questa sensazione la conosco benissimo.

In un’intervista alla Fallaci, la Ginzburg ribadisce il concetto:

«Io per esempio il primo anno che avevo Carlo avevo sempre paura che mi morisse sebbene fosse un bambino floridissimo: e quindi non c’era spazio per scrivere, c’era spazio solo per questo rapporto fra lui e me. Non potevo lasciarlo nemmeno col pensiero»4.

 

E anche questa è una sensazione che trovo estremamente familiare.

Quello che invece mi ha fatto riflettere molto sono le parole della Ginzburg, che di figli ne ha avuti ben cinque, su come è riuscita a riappropriarsi del suo rapporto con la scrittura. Ed è questo il punto della questione, ciò che vorrei condividere con voi.

Ne Le Piccole virtù la Ginzburg dice:

«I bambini mi parevano una cosa troppo importante perché ci si potesse perdere dietro a delle stupide storie, stupidi personaggi imbalsamati. Ma avevo una feroce nostalgia e qualche volta di notte mi veniva quasi da piangere a ricordare com’era bello il mio mestiere […]. Pensavo che l’avrei ritrovato un giorno o l’altro, ma non sapevo quando: pensavo che avrei dovuto aspettare che i miei figli diventassero uomini e andassero via da me. Perché quello che avevo allora per i miei figli era un sentimento che non avevo ancora imparato a dominare. Ma poi ho imparato a poco a poco»5.

La Ginzburg tornò a scrivere mentre preparava ancora “sugo di pomodoro e semolino”:

«Ricominciavo a scrivere come uno che non ha scritto mai, perché era già tanto tempo che non scrivevo, e le parole erano come lavate e fresche, tutto era di nuovo come intatto e pieno di sapore e di odore. Scrivevo nel pomeriggio, quando i miei bambini erano a spasso con una ragazza del paese, scrivevo con avidità e con gioia, ed era un bellissimo autunno e mi sentivo ogni giorno così felice»6.

 

Sempre alla Fallaci diceva a conclusione della sua intervista:

«Poi a poco a poco ho capito che si poteva scrivere lo stesso, bastava trovar l’equilibrio, capisce, trovare requie e spazio negli affetti, capisce. Insomma se uno ha davvero necessità di scrivere, scrive lo stesso. E dire io non mi sposo, io non faccio bambini perché voglio scrivere è sbagliatissimo: creda. Uno non si deve privare della vita sennò a un certo punto si inaridisce e non scrive più niente, lo ricordi»7.

 

E queste sono le parole di una donna che ha affrontato i lutti della Storia contemporanea direttamente sulla propria pelle. Una scrittrice straordinaria, con la sua voce secca, genuina, assolutamente inconfondibile.

«Uno non si deve privare della vita sennò a un certo punto si inaridisce e non scrive più niente». Non so voi ma io quando rileggo questa frase mi sento immediatamente più forte: essere sopraffatte da un sentimento che non si conosce, imparare a dominarlo, tornare al proprio mestiere con lo stesso rigore di sempre ma con qualcosa in più, un’esperienza umanamente stravolgente. Ecco, questo mi pare un percorso assolutamente condivisibile, sostenibile, umano. Il senso di smarrimento si supera e si supera anche la sensazione di non riuscire a dedicarsi alle proprie passioni in maniera rigorosa. Balsamo per i miei occhi, balsamo per il mio cuore e per quello di mia figlia.

E spero possano essere balsamo anche per voi, che con me le avete condivise.


1. N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino, 1962, p. 73.
2. Ivi, p. 88.
3. Ivi, p. 83.
4. O. Fallaci, Gli antipatici, Rizzoli, Milano, 2014.
5. Ginzburg, Le piccole virtù, cit, pp. 83-84.
6. Ivi, p. 84.
7. Fallaci, Gli antipatici, cit.
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La Lettera22 e il logo LaTuaMomis

 

Con amore - la Lettera22 e il logo LaTuaMomis

Avevo forse otto anni. Mio padre si spostava spesso per lavoro e prendeva il treno. Quando non dormiva a casa c’era sempre un certo senso di inquietudine. Io, mia mamma e mia sorella piccola restavamo sole. Insomma, non ci sarebbe successo niente, ovvio. C’era mia mamma e quindi eravamo inattaccabili, però. Decisi di scrivere una poesia. La mia prima. Si intitolava Il treno. Il testo era anche abbastanza lungo ma non credo sia stato conservato. Si trattava di un’invettiva contro quello sbuffante mezzo di trasporto che mi portava via mio padre. Iniziava forse così: “Io odio i treni”. Niente di più che l’espressione dei sentimenti di una bambina. Il fatto è che non la scrissi con la penna. Usai la Lettera 22.

Lettera 22 - la Lettera22 e il logo LaTuaMomisQuella macchina da scrivere l’avevano usata i miei genitori per le loro Tesi. Mio padre si era laureato in Matematica e mia mamma in Storia. Insomma faceva parte del patrimonio di famiglia in un periodo in cui i computer ancora non avevano fatto il loro ingresso nelle case degli italiani. Anni dopo la usai ancora per scrivere il mio primo racconto che venne pubblicato sul giornale della scuola media. L’allora caporedattore ne modificò il finale senza dirmi niente. Il racconto era troppo visionario, eccessivamente surreale. Così lui inserì una riga nella quale si intuiva che si trattava di una storia inventata da una nonna per intrattenere la nipote. Faceva più o meno così: “Ma nonna, cosa dici?”. Comunque.

La Lettera 22 fu poi messa da parte con l’avvento a casa nostra dei primi pc. Delle macchine enormi che funzionavano in Dos. E io scrivevo i miei racconti a penna su dei quaderni e poi li ricopiavo lì. Una volta al liceo avevo scritto tutto un romanzo intero direttamente sul pc e per qualche motivo il file si perse. Disperazione pura. Di quella trama conservo solo qualche appunto preparatorio e niente, niente più. Così ho imparato a fare il backup. Ma questa è un’altra storia.

La Lettera 22 è rimasta in esposizione negli anni in tutte le case che ho cambiato (e ne ho cambiate di case in 40 anni) come oggetto simbolico. I miei genitori ci avevano scritto le loro Tesi di Laurea, io ci avevo scritto la mia prima poesia e il mio primo racconto. La mia vita ha preso le sue pieghe, inaspettate, azzardate, ha scalato le montagne dei miei sogni, li ha realizzati (in tutto o in parte) sostenuta da me, dalla mia famiglia, dalle persone che mi sono state vicino, da quelle che mi hanno voltato le spalle, da quelle che non ci sono più, da quelle che ci sono e sempre ci saranno.

E adesso che la storia d’amore tra me e il lavoro della mia vita è in qualche modo terminata, adesso che sto rialzando la testa per rimettermi in gioco e fare delle mie passioni un lavoro nuovo, non mi è sembrato strano ritornare da lei. La mia Lettera 22. Ho ripulito i suoi tasti incrostati di inchiostro uno per uno. Ci ho messo dentro la carta ed ecco finalmente il logo della mia nuova attività. L’unico possibile. Tornare indietro per andare avanti con la mia Lettera 22 e il logo de LaTuaMomis messi assieme.

Se un giorno dovessi avere dei dipendenti, se la mia attività dovesse in qualche maniera industrializzarsi, il modello a cui guarderei è quello di Olivetti. Con le sue “isole” al posto della catena di montaggio. Con le vetrate che guardano alle montagne al posto dei muri di cemento. Con gli asili nido e la biblioteca aziendali. Con l’idea di mettere al centro le persone con le loro competenze e passioni. Con la sua Lettera 22 progettata da un designer italiano negli anni Cinquanta, esposta al Moma, usata da Pasolini e dalla Plath, e che ancora sta qui sulla mia scrivania. La Lettera 22 e il suo fascino che attraversa gli anni intatto.

Mi pare che in un giallo della Christie, La serie infernale, Poirot riuscisse a identificare l’assassino grazie anche alle peculiarità della sua macchina da scrivere… questo perché ogni macchina da scrivere è particolare, ha dei segni che la contraddistinguono. La mia fa la “a” tutta chiusa come se fosse un segno circolare. È unica, personale. È per questo che se devo firmare qualcosa che sia davvero mio non può essere che attraverso il suo segno grafico. Più che attraverso la mia calligrafia. Perché nei suoi tasti c’è la storia della mia famiglia, la storia della parte buona del mio Paese, di un modello di organizzazione del lavoro assolutamente innovativo e visionario, e il racconto della mia avventura personale, della mia crescita, delle mie passioni. Storia e tradizione, partenza e ritorno. Con amore.