Categoria: Mamme che lavorano
Rispettare la natura nel proprio lavoro: un impegno sostenibile
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Eccoci per un nuovo appuntamento nel diario de LaTuaMomis.
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Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta molto a cuore e che riguarda la mia quotidianità. La domanda è questa: è possibile rispettare la natura nel proprio lavoro? Per me è un impegno di assoluta preminenza. E mi sono resa conto nel tempo che è anche sostenibile.
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Quando ho iniziato a lavorare nella mia bottega e a progettare i miei prodotti, usavo carte di ogni provenienza e marca. Mi facevo guidare dai colori e dalle consistenze e non badavo alla sostanza. Poi ci ho pensato su e mi sono resa conto che dovevo fare qualcosa perché il mio lavoro rispettasse la natura dalla quale così spesso prendo ispirazione.
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È così che è iniziata una lunga fase di ricerca che mi ha portato a eliminare non solo le carte fatte in cellulosa ma anche quelle FSC (provenienti da foreste gestite in maniera consapevole) per sostituirle con carte interamente riciclate.
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Sono stata fortunata a trovare sul mio cammino una fonte inesauribile di carte splendide che è la Carta in Dispensa e mi sono innamorata di quelle prodotte dagli scarti delle lavorazioni agroindustriali. Ho scoperto che la Fabriano produce una carta da disegno riciclata che ha un punto di bianco favoloso e la consistenza giusta per accogliere gli inchiostri. Ho capito che prodotti di qualità si possono ottenere anche se le carte che usiamo non sono in cotone o sbiancate industrialmente.
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Ma non mi bastava. Ho deciso di sostituire gli inchiostri per la stampa a base chimica con quelli a base d’acqua. L’effetto che si ottiene è comunque molto suggestivo e di lunga durata. E invece di comprare filati per rilegare di varia natura, ho scelto di usare quelli in canapa.
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Quanto di più mi costa produrre in maniera ecosostenibile rispetto a prima? Poco di più. Quindi i prezzi dei prodotti sono comunque essenzialmente gli stessi e io sono orgogliosa di essermi impegnata a difendere l’ambiente pur nel mio piccolo.
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E voi? Cosa fate per sostenere la natura nel vostro lavoro e nel vostro quotidiano? Scrivetelo nei commenti! Io nel frattempo vi aspetto in bottega!
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Uscire dalla comfort zone: un’esperienza stimolante
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Ciao, è da tantissimo tempo che non riesco ad essere presente qui sul blog e cercherò di recuperare perché scrivere mi manca moltissimo.
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Oggi riesco a sedermi un secondo per raccontarti dell’esperienza che ho vissuto domenica 10 giugno perché penso possa esserti utile in qualche modo.
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Sono stata invitata a partecipare al Nimbus festival, una manifestazione bellissima organizzata a Roma nei giardini del Monk da Alinea e Bacteria.
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Si trattava della mia seconda uscita pubblica e posso dire di essere molto contenta di aver accettato l’invito. La mostra mercato dell’immaginario ha raccolto intorno a sé artigiani, artisti e illustratori di grande talento in un’atmosfera rilassata e familiare.
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Ecco, diciamo che il contatto col pubblico non è proprio il mio forte. Sono una persona molto timida e riservata e diciamo pure, schiva. Ma uscire dalla mia comfort zone ogni tanto è stimolante perché mi dà la possibilità di mettermi alla prova e spostare i miei orizzonti sempre un po’ più in là.
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Sentirsi parte di un progetto. Essere apprezzati per quel che si fa. Spiegare con amore alle persone che te lo chiedono con interesse quello che fai ogni giorno nel tuo laboratorio. Osservare la luce negli occhi degli altri quando guardano i tuoi lavori. Scambiare punti di vista con gli altri artigiani come te. Darsi consigli e ricevere incoraggiamenti. Tutto ciò non può avvenire quando sei sola nella tua bottega.
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Certo esiste Internet, e un like su Instagram o su Facebook a volte assomiglia a una pacca sulla spalla ma in realtà non lo è.
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Quindi se posso azzardarmi a darti un consiglio, quando ti capita, esci anche tu dalla tua comfort zone. Buttati nella mischia e lancia il tuo cuore oltre quelli che ti sembrano ostacoli ormai consolidati. Perché ne vale la pena.
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E quando dopo una giornata come quella trascorsa al Nimbus, per la quale ringrazio tutti quelli che l’hanno organizzata e hanno contribuito a realizzarla, torni a casa con un sorriso in più, ne trarrai beneficio nella tua quotidianità ma ne trarranno beneficio anche e soprattutto quelli che ti stanno intorno.
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E con questo è tutto. Alla prossima!
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Vieni a visitare la mia Bottega e il mio Shop
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Ti racconto la mia prima esperienza dal vivo: Wave Market Fair 2018
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In queste ultime settimane non mi sono fatta sentire spesso. Lo so. Ma c’era un motivo. Sono stata impegnatissima a preparare la mia prima uscita dal vivo in assoluto.
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Sono stata invitata a partecipare al Wave Market Fair, un mercato che si tiene nell’ambito dell’Outdoor Festival a Roma, negli spazi della Pelanda, all’antico Mattatoio di Testaccio.
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Per me che produco tutto ciò che faccio interamente a mano, si è trattato di un grosso impegno in termini di tempi. Per riempire il mio stand ho lavorato più o meno un mese e non sono riuscita a portare con me tutto ciò che avrei voluto.
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Nonostante questo, l’esperienza è stata bellissima e mi ha fatto riflettere su molte cose.
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In primis, il contatto diretto con i clienti. Era una cosa che avevo già vissuto in passato ma non mi ero mai trovata a vendere prodotti fatti da me o a raccontare il mio brand, le mie idee e le mie ispirazioni. E posso dire che fa tutta la differenza. Incontrare le persone, osservare la loro espressione mentre descrivi con passione quello che fai è un’esperienza unica.
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In secondo luogo, ritrovarsi insieme ad altri creativi. Il confronto è sempre un elemento stimolante. Scambiarsi saperi, tecniche, ispirazioni dal vivo, non con un semplice like su Istagram, è completamente diverso e assai più appagante.
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Terzo, poter vivere uno spazio dove si produce cultura dall’interno. Questo mi ha resa orgogliosa e ha rabboccato le mie scorte di creatività. La Pelanda è uno spazio bellissimo e la rassegna dell’Outdoor, con il Wave Market Fair, è stata curata con passione. Far parte di tutto questo è stato molto stimolante.
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Un ultima riflessione però la vorrei fare e la rivolgo a tutte le mamme crafter come me. Per poter partecipare ad eventi live di questo genere, c’è bisogno di una rete di supporto, c’è poco da fare. Persone che ti aiutino nella fase produttiva, organizzativa e preparatoria dividendo con te il carico di cura dei tuoi figli. Persone che logisticamente ti accompagnino, ti diano il cambio e si occupino dei bambini mentre tu partecipi all’evento. Ecco, non sottovalutate l’importanza di questo aspetto. Chiedete aiuto a chi vi sta vicino se volete godere a pieno della partecipazione agli eventi live che tanto bene faranno a voi e al vostro brand.
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A chi mi ha supportato in questa splendida avventura quindi dico grazie. Al mio compagno, a mia sorella e ai miei genitori senza i quali non avrei potuto essere al Wave Market Fair del 10 maggio scorso. E a mia figlia che ha avuto tantissima pazienza.
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Noi ci risentiamo presto al prossimo articolo!
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Un penny tutto per sé
Come diceva Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé:
«Making a fortune and bearing thirteen children – no human being could stand it. Consider the facts, we said. First there are nine months before the baby is born. Then the baby is born. Then there are three or four months spent in feeding the baby. After the baby is fed there are certainly five years spent in playing with the baby. […] If Mrs Seton, I said, had been making money, what sort of memories would you have had of games and quarrels? […] But it is useless to ask these questions, because you would never have come into existence at all. Moreover, it is equally useless to ask what might have happened if Mrs Seton and her mother and her mother before her had amassed great wealth and laid it under the foundations of college and library, because, in the first place, to earn money was impossible for them, and in the second, had it been possible, the law denied them the right to possess what money they earned. It is only for the last forty-eight years that Mrs Seton has had a penny of her own»1.
Ecco, quando ho letto questo saggio per la prima volta ero all’Università e da scrittrice in erba mi concentravo sulla parte romantico-femminista della storia: una donna, per scrivere capolavori, ha bisogno di una stanza tutta per sé.
Adesso, vent’anni dopo l’Università e quattro anni dopo aver avuto una figlia, ho realizzato (nonostante esistessero già svariate querelle femministe sull’argomento) che in Una stanza tutta per sé Virginia Woolf parla anche di maternità. E in sostanza questa donna, che ha vissuto agli inizi del Novecento, non fa che dire una cosa verissima: «Far fortuna e dare alla luce tredici figli – nessun essere umano ce la può fare». Al di là del fatto che nella società occidentale, nella classe medio-borghese, al momento è abbastanza raro che una donna faccia tredici figli, trovo che in questa frase siano comunque racchiusi i due scabrosi elementi cardine della vicenda: “fare soldi” e “fare figli”. Due cose di cui un essere umano può o non può occuparsi contemporaneamente? Ed ecco che nella mia testa le parole “a room of one’s own” si trasformano a un tratto in “a penny of her own”.
Una volta parlavo con un amico, forse dieci se non dodici anni fa, e devo avergli detto qualcosa come: «Se una donna non è economicamente autosufficiente come fa a scrivere? Bisognerebbe avere dei soldi per non dover lavorare e dedicarsi anima e corpo alla scrittura». Mi ricordo che la cosa lo colpì e mi rispose qualcosa come: «Ma stai davvero parlando di soldi?». All’epoca lavoravo in una libreria di catena per potermi mantenere e mi sembrava di dedicare alla scrittura davvero troppo poco tempo.
A pensarci adesso mi fanno riflettere due cose.
La prima è quanto sia cambiata, dopo aver avuto una bimba, l’idea di “dedicare troppo poco tempo a qualcosa” al di fuori di lei. «Consider the facts», diceva la Woolf, «Consideriamo i fatti» (e si badi bene, qui si parla di «fatti», non di «opinioni»):
«First there are nine months before the baby is born. Then the baby is born. Then there are three or four months spent in feeding the baby. After the baby is fed there are certainly five years spent in playing with the baby».
Insomma secondo la Woolf per poter arrivare ad avere del tempo per sé (e quindi per poter tornare a lavorare e conseguentemente guadagnare diremo noi), una mamma deve aspettare almeno cinque anni a bambino, poiché in quei cinque anni il suo ruolo è essenziale, deve stare insieme a lui, deve nutrirlo fisicamente («to feed the baby») e poi spiritualmente («play with the baby»). E qui non ci sono santi. Non ci sono sostituti. Queste cose, secondo Virginia Woolf, le deve fare la mamma, punto e basta.
La seconda è che la questione del rapporto tra soldi e donne è e rimane cruciale. Non l’abbiamo risolta, manco per niente. Nel 1928 Virginia Woolf diceva:
«It is only for the last forty-eight years that Mrs Seton has had a penny of her own».
Adesso, il fatto che una donna medio-borghese occidentale lavori e abbia dei soldi propri ci sembra una cosa abbastanza scontata dal punto di vista sociale (disoccupazione a parte), voglio dire non sembra una cosa scandalosa e fuori luogo o peggio «denied by law». Ma io credo che sia ancora maledettamente faticosa se quella donna ha dei figli.
Che ne pensate? Non vedo l’ora di confrontarmi con voi su questo argomento.
1) V. Woolf, A room of one’s own, Penguin, Londra, 2004, pp. 25-26.
Conciliare maternità e arte secondo Natalia Ginzburg
Conciliare maternità e arte
secondo Natalia Ginzburg.
Se la maternità sconvolga a tal punto la vita di una donna da non permetterle più di dedicarsi alla sua arte come avrebbe fatto se non avesse avuto figli, è un argomento a lungo dibattuto almeno a partire dall’inizio del Novecento. Il tema è caldo soprattutto per chi considera l’arte come un lavoro, qualcosa da perseguire con rigore e metodo oltre che lasciandosi trasportare dalla propria ispirazione.
La stessa domanda me la sono posta anch’io infinite volte mentre la maternità sconvolgeva completamente la percezione che avevo di me, delle mie parole, del mio corpo e del mio tempo. E la risposta non l’ho ancora trovata perché credo che non esista. Quello che esiste sono le esperienze delle persone. Il modo in cui questo momento così significativo e denso della vita viene affrontato, superato, gestito, elaborato dalla singola donna, artista o meno che sia.
Non so se capita anche a voi, ma quando ho un dubbio, oltre che condividerlo con le persone che mi circondano, cerco una risposta nei miei libri. Sono convinta che i libri ci parlino, che dialoghino con noi e che, a seconda della fase della vita in cui li leggiamo o rileggiamo, ci diano delle risposte.
Quando leggevo i suoi romanzi all’Università per scrivere la mia tesi di laurea, quello che mi colpiva di Natalia Ginzburg era il rigore. Questa donna, la cui vita è stata attraversata in maniera durissima dalle vicende della Seconda Guerra Mondiale, dichiarava essenzialmente che la scrittura è un mestiere:
«Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere […] adopero degli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani»1.
E più avanti:
«Questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone, capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lacrime e stringere i denti e asciugare il sangue delle nostre ferite e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede»2.
Quindi la scrittura è un mestiere, una cosa seria, una cosa che non si può fare “con una mano sola”. Ma come conciliare questo “mestiere” con la maternità?
«E poi mi sono nati dei figli e io sul principio quando erano molto piccoli non riuscivo a capire come si facesse a scrivere avendo dei figli […] m’ero messa a disprezzare il mio mestiere»3.
Ecco, non so voi, ma io questa sensazione la conosco benissimo.
In un’intervista alla Fallaci, la Ginzburg ribadisce il concetto:
«Io per esempio il primo anno che avevo Carlo avevo sempre paura che mi morisse sebbene fosse un bambino floridissimo: e quindi non c’era spazio per scrivere, c’era spazio solo per questo rapporto fra lui e me. Non potevo lasciarlo nemmeno col pensiero»4.
E anche questa è una sensazione che trovo estremamente familiare.
Quello che invece mi ha fatto riflettere molto sono le parole della Ginzburg, che di figli ne ha avuti ben cinque, su come è riuscita a riappropriarsi del suo rapporto con la scrittura. Ed è questo il punto della questione, ciò che vorrei condividere con voi.
Ne Le Piccole virtù la Ginzburg dice:
«I bambini mi parevano una cosa troppo importante perché ci si potesse perdere dietro a delle stupide storie, stupidi personaggi imbalsamati. Ma avevo una feroce nostalgia e qualche volta di notte mi veniva quasi da piangere a ricordare com’era bello il mio mestiere […]. Pensavo che l’avrei ritrovato un giorno o l’altro, ma non sapevo quando: pensavo che avrei dovuto aspettare che i miei figli diventassero uomini e andassero via da me. Perché quello che avevo allora per i miei figli era un sentimento che non avevo ancora imparato a dominare. Ma poi ho imparato a poco a poco»5.
La Ginzburg tornò a scrivere mentre preparava ancora “sugo di pomodoro e semolino”:
«Ricominciavo a scrivere come uno che non ha scritto mai, perché era già tanto tempo che non scrivevo, e le parole erano come lavate e fresche, tutto era di nuovo come intatto e pieno di sapore e di odore. Scrivevo nel pomeriggio, quando i miei bambini erano a spasso con una ragazza del paese, scrivevo con avidità e con gioia, ed era un bellissimo autunno e mi sentivo ogni giorno così felice»6.
Sempre alla Fallaci diceva a conclusione della sua intervista:
«Poi a poco a poco ho capito che si poteva scrivere lo stesso, bastava trovar l’equilibrio, capisce, trovare requie e spazio negli affetti, capisce. Insomma se uno ha davvero necessità di scrivere, scrive lo stesso. E dire io non mi sposo, io non faccio bambini perché voglio scrivere è sbagliatissimo: creda. Uno non si deve privare della vita sennò a un certo punto si inaridisce e non scrive più niente, lo ricordi»7.